La fine dell'Iraq. Come gli Stati Uniti hanno distrutto il paese che intendevano liberare

La fine dell'Iraq. Come gli Stati Uniti hanno distrutto il paese che intendevano liberare

Nel marzo del 2003 gli Stati Uniti hanno invaso l'Iraq con il proposito immediato di rovesciare Saddam Hussein, accusato di detenere armi di distruzione di massa, ma nella più ampia prospettiva di instaurarvi un regime democratico, che avrebbe dovuto avviare un processo di trasformazioni virtuose in tutto il Medio Oriente. Se, dopo un breve conflitto militare, si è facilmente raggiunto il primo obiettivo, le conseguenze sono state drammatiche e inattese. Il paese è precipitato nella guerra civile, o meglio nel quotidiano stillicidio di attentati terroristici che in pochi anni hanno mietuto decine di migliaia di vittime, e si è smembrato in tre tronconi: il Kurdistan filoccidentale al nord, una vasta zona a predominanza sciita fortemente influenzata dal governo iraniano al sud e una disarticolata e turbolenta regione sunnita al centro. L'amministrazione Bush, infatti, non si è limitata ad abbattere la dittatura, ma ha smantellato e distrutto gli organi dell'apparato statale (esercito, servizi di sicurezza e partito Baath) con cui la minoranza sunnita aveva governato il paese per decenni, creando un vuoto istituzionale che non è riuscita a colmare. Peter Galbraith, che nel corso degli ultimi ventisei anni è stato più volte inviato del governo americano in Iraq, dove ha stretto amicizia con leader politici come Jalal Talabani (attuale presidente dell'Iraq) e Massoud Barzani (presidente del Kurdistan), si avvale della ricca esperienza maturata sul campo per fornire una valutazione di quanto è accaduto e sta accadendo, e soprattutto per avanzare ipotesi realistiche su scenari futuri. Scritto con uno stile da reportage che nulla toglie al rigore dell'analisi politica, "La fine dell'Iraq" ripercorre le tappe del progetto statunitense di "costruzione di una nazione", evidenziandone limiti ed errori, dovuti alla scarsa conoscenza della realtà irachena e alla mancanza di un'efficace pianificazione della fase postbellica. Oltre ad aver gravemente sottovalutato la profondità delle divisioni etniche e religiose, durante l'occupazione il governo americano ha adottato una linea spesso incoerente e inadeguata, affidando la gestione del paese a uomini scelti più per la loro fedeltà politica che per la loro competenza. In una situazione che sembra ormai fuori controllo e senza sbocchi, gli Stati Uniti non hanno molti modi per 'uscire' dall'Iraq, e Galbraith prova a suggerirne alcuni. L'amministrazione Bush dovrebbe cercare di porre fine al dilagare della violenza, che non solo rende impossibile ogni prospettiva di ripresa, ma rischia di coinvolgere anche gli Stati confinanti. E dovrebbe accettare la realtà di un Iraq diviso, lavorando con sciiti, curdi e sunniti per rafforzare le regioni già semindipendenti che, se opportunamente organizzate, potrebbero garantire equilibrio e sicurezza. Insomma, solo rinunciando all'attuale linea politica - che contempla la creazione di istituzioni nazionali laddove, di fatto, una nazione non esiste più - e restituendo l'Iraq agli iracheni, gli Stati Uniti possono sperare di sottrarsi a un destino sempre più simile al fallimentare esito della guerra in Vietnam.
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