Il «Werther» di Foscolo. Una lettura

Il «Werther» di Foscolo. Una lettura

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis sono anzitutto un grido di dolore per la patria svenduta? Sono l'accorata espressione del disinganno morale e umano di un giovane scrittore, o la testimonianza non sempre pervenuta a vera realizzazione d'arte dell'amarezza che segue alle illusioni rivoluzionarie? Insomma, il romanzo di Ugo Foscolo è l'esile travestimento autobiografico delle vicissitudini politiche e amorose occorse al suo autore? E il volto del personaggio-Jacopo deve e può geometricamente sovrapporsi a quello dello scrittore-Ugo? Se tutto ciò fosse vero, cosa farne di alcuni fatti empirici che meritano - invece - di essere interpretati? Anzitutto, la precisa divaricazione della parabola di Jacopo rispetto a quella di Ugo. Comune l'angoscia del Dopo Campoformio (per dirla con Roversi), ma opposto il séguito: il ricovero nel romitorio euganeo, per Jacopo; per Ugo, Bologna, Milano, l'esercito, la militanza politica nel cuore della Cisalpina e poi della Repubblica Italiana, l'opera intellettuale sempre dedicata alle vicende dell'oggi. E poi, che genere di racconto autobiografico è quello assemblato sulla falsariga del romanzo (Die Leiden des jungen Werthers) di un altro scrittore (Goethe)? Studiare metodo e forma di questo remake foscoliano significa guardare alle Ultime lettere come a un romanzo, e leggerne il messaggio non consolatorio sulla funzione che letteratura ha in una società in formazione, com'è quella italiana negli anni del proto-Risorgimento.
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