Tingeltangel

Tingeltangel

"La comicità più singolare che da tempo mai si vedesse sulla scena: una danza infernale della ragione attorno ai due poli della follia": così Tucholsky presenta l'arte di Karl Valentin. Ogni sera, per lo più nei Tingeltandel bavaresi, locali fumosi, ingombri di sedie e tavolini con lastre di marmo, un pubblico di piccoli impiegati, casalinghe, commercianti applaudiva le apparizioni della sua silhouette allampanata, che subito provocava "un'incessante risata interiore", di una specie però che "non ha nulla di particolarmente bonario". Ma negli anni Venti, mescolati a quel pubblico variegato, si entusiasmavano per Valentin anche esseri così diversi come Brecht e Hesse, Tucholsky e Polgar. La sua "clownerie metafisica" gli aveva fatto inventare, quasi senza accorgesene, ciò che decenni dopo, con qualche pomposità, sarebbe stato chiamato il "teatro dell'assurdo". E le sue 'scene' e monologhi, ricamati sull'esasperazione, apparivano come una grandiosa conferma della "'inadeguatezza di tutte le cose', compresi noi stessi" (diceva Brecht, ma curiosamente anche Hesse vedeva in Valentin il disvelatore di una radicale 'inadeguatezza'). Davanti alla freccia di Valentin, come davanti a quella di Buster Keaton o di Totò, ci sentiamo scossi, al tempo stesso, dalla commozione e dal riso. Ed è difficile guardarlo, o leggerlo, senza essere contagiati dalla sua insondabile perplessità, in cui Polgar riconosceva "un frammendto della perplessità ancestrale propria della creatura umana per il fatto di esistere". Scritti in un saporoso bavarese, i testi di scena di Karl Valentin conservano intatta la sua comicità, come una mosca nell'ambra: ne presentiamo qui per la prima volta una scelta dove sono rappresentati i suoi vari generi, dal monologo alla scena a due, alle piccole commedie.
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