La modernità di Giambattista Vico tra mito e metafora

La modernità di Giambattista Vico tra mito e metafora

All'alba dell'Illuminismo e nel momento in cui le scoperte della rivoluzione scientifica iniziano a farsi strada fra le coscienze europee, Giambattista Vico propone una Scienza Nuova in cui si riscopre la rilevanza culturale del mito e della retorica, in cui si parla di bestioni, eroi omerici, leggi agrarie della Roma antica. In un panorama culturale ancora dominato dal razionalismo cartesiano, per il quale i racconti e le allegorie dei popoli primitivi non erano altro che selvagge chimere e gli studia humanitatis rappresentavano un sapere arbitrario e accessorio, le idee vichiane non potevano riscuotere il meritato successo. Bisognerà aspettare il Novecento per assistere a una riscoperta del pensiero di Vico, che renda ragione della sua ricchezza e profondità senza tuttavia tradirne l'autenticità. Antropologi, sociologi, linguisti non considerano più il filosofo napoletano un campione dell'antilluminismo, romantico ante litteram o esponente tardivo dell'umanesimo italiano. Ciò che emerge con chiarezza è come l'autore della Scienza Nuova non sia affatto un detrattore della ragione così come la intendevano gli illuministi o Descartes prima di loro. Quella vichiana è semmai un'altra ragione, opposta a quella cartesiana, logocentrica e riduzionista, una ragione più ampia, capace di accogliere al suo interno le istanze provenienti dalla fantasia, dai sentimenti e dalla socialità. In questo senso si può parlare di modernità in relazione a Giambattista Vico, i cui interrogativi sono daccapo i nostri, e le cui soluzioni più che mai attuali.
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