Primi poemetti

Esattamente cento anni fa, nel giugno 1897, Pascoli licenziava il primo, parco volume di "Poemetti", destinato, come molta altra sua produzione, a crescere nel corso di successive rielaborazioni: questo nucleo fondante iniziava con il ciclo della "Sementa", unico testo di ambientazione contadina, eterogeneo nei registri e nei materiali linguistici, comprendente concrezioni vernacolari, preziosismi di lingua popolare, addirittura proverbi e frasi idiomatiche. Il passaggio del libro alla nuova forma dei "Primi poemetti", pubblicati nel 1904 e poi nella edizione definitiva del 1907, approfondisce il problema linguistico trasformandolo in una celebrazione non declamata, anzi dolente, della lingua del 'sì', difesa da quella del dilagante 'yes': lingua povera di gente raminga, lingua che tuttavia, proprio nel suo registro più naturale e materno, il dialetto, contiene la forza dell'incanto, la capacità di settare legami nello spazio e nel tempo, con terre d'oltre mare e tra diverse generazioni, come segnano, con perfetta corrispondenza, i componimetni posti alla due estremità della silloge, la "Sementa" e "Italy". Anche la struttura originaria si amplia e si articola in nuove campiture, che assommando nel titolo delle sezioni quelli dei loro due testi iniziale e finale, indicano una forte coesione interna, quasi un filo rosso per segnalare aggregazioni e cesure.I "Primi poemetti" riprendono e sviluppano la riflessione su fondamentali 'auctoritates', come Petrarca volgare e latino, la Bibbia, Agostino e Leopardi, in un'antitesi puntuale e forte al D'Annunzio cantore di gloria e di guerra. A Pascoli, una volta vagliata la vanità di ogni cosa e di ogni aspirazione (è vano il tentativo di moto e di progresso, vana l'arte figurativa, vana la conoscenza, vana la stessa poesia decidua al pari del sole in un istante), esperito l'abisso che circonda l'esistenza, resta unicamente la parola, quasi parabola del 'buon novellatore', che inviti alla solidarietà, secondo l'ultimo [...]