Antiquarie prospetiche romane

Antiquarie prospetiche romane

In un anno prossimo alla fine del Quattrocento, un pittore milanese amico di Leonardo, allora ospite a Milano di Ludovico il Moro, gli indirizza da Roma un poemetto in terzine di quattrocento versi in cui, per sollecitarlo a scendere nel maggiore centro dell'antichità, gli descrive le testimonianze di un glorioso passato: sculture da poco tornate alla luce, visibili in luoghi pubblici o in raccolte private, monumenti illustri, rovine; ma anche le novità più straordinarie del giorno, come le pitture che si andavano scoprendo negli anfratti, o "grotte", di strati archeologici sepolti (chiamate, con termine di moda, "grottesche") o la tomba di Sisto IV del Pollaiolo nella Basilica di San Pietro. A volte sembra indulgere alla propria fantasia personale o a leggende popolari raccolte in luogo; ha però occhi bene aperti e partecipa, curioso, dell'entusiasmo diffuso per la riscoperta della Classicità. Il Prospettivo (così definito per il suo coinvolgimento nei problemi prospettici allora molto dibattuti in Lombardia) non è un letterato di professione, tanto meno un poeta rifinito, 'à la page' con la nuova cultura filo-toscana che sta nascendo nelle Corti di val Padana; anche se i suoi versi non mancano, negli irti cataloghi di cui si compiace sul modello di certi passi danteschi o nell'insistita descrizione di pietre e materiali preziosi, di avere il fascino proprio dei prodotti "barbari". Le "Antiquarie prospetiche Romane", che dalla loro riscoperta sul nascere dell'Unità d'Italia sono state attribuite ora all'uno ora all'altro pittore, in una rosa di una diecina di candidati dal Bramante al Bramantino, dal De Predis allo Zenale, sono destinate per il momento (sino all'emersione di nuovi documenti) a rimanere delusivamente adespote. Ma la loro paternità non è che uno dei molti interrogativi che esse ci pongono, dall'anno in cui furono scritte a quello in cui vennero stampate, probabilmente a Roma (se ne conoscono due soli esemplari); principale restando però la loro comprensione, perché, non scevre d'errori attribuibili all'autore o allo stampatore, la lezione che offrono è spesso di arduo intendimento. Ripubblicato, nel 1876, da Gilberto Govi, in una "memoria" dei Lincei, il poemetto da allora è stato al centro di una pluralità di interessi, da parte di archeologi, storici dell'antichità e delle arti, bibliotecnici, ecc. (come risulta dalla ricca "Cronaca" della sua fortuna qui minuziosamente delineata e dalla vastissima letteratura critica censita nella bibliografia). Ma si direbbe che ad acuire un'attenzione sempre crescente abbia giocato, specie in tempi a noi vicini, proprio l'enigmaticità del testo, stuzzicante come un 'rebus'. Ne sono discese varie proposte interpretative, talune così stravaganti da ricordare i "Mattoidi" di Carlo Dossi (un altro lombardo, amante di anticaglie, calato nella Bisanzio romana). L'edizione critica e commentata che vede ora la luce nella "Biblioteca di Scrittori Italiani" della Fondazione Bembo, corredata di un "Album" di centoventi tavole illustrative, offre al lettore il risultato di una non ordinaria collaborazione tra due diverse competenze, filologica e storico-artistica, firmata da Giovanni Agosti e Dante Isella.
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