Amare Hitler. Storia di una malattia

Amare Hitler. Storia di una malattia

Peter Roos, nato nel 1950 insieme alla Repubblica federale, si pone difficili interrogativi esistenziali: in che mondo mi hanno catapultato? Perché la mia città natale, anzi tutti i luoghi da cui siamo passati, sono stati bombardati? Perché è difficile riuscire a sapere come sia potuto accadere tutto ciò? Perché avverto immediatamente ostilità e disapprovazione quando cerco di andare a fondo degli eventi che hanno preceduto la mia nascita? Che cosa hanno fatto, o non hanno fatto, i miei genitori e tutta la loro generazione - i Freud, gli Adorno, gli Horckheimer, i Marcuse, i Benjamin, gli Elias, Ernst Bloch - sono ebrei e scende un silenzio di piombo (si potrebbe parlare addirittura di una cospirazione del silenzio) quando si chiede dove sono finiti gli ebrei tedeschi? Chi sono i colpevoli, cosa si è fatto per consegnarli alla giustizia e purificare così la società dalla colpa? Perché ciò che è essenziale per comprendere la propria situazione esistenziale è avvolto da pesanti tabù, che non si possono sfiorare senza provocare suscettibilità, ira e paura, e si è costretti a procedere a tentoni, come un cieco su un palcoscenico costruito con cura ma infinitamente fragile, con il costante timore di far crollare una struttura precaria? E chi sono io, condannato a brancolare fra le menzogne? E, interrogativo ancora peggiore perché destinato a restare senza risposta: come mi sarei comportato io se...? Nelle tre parti del libro, "Il simpatizzante e Io", "Il dossier della Gestapo e Io", "Eva Braun e Io", si incarnano gli innumerevoli fantasmi intangibili che aleggiano in Germania, poiché, come si sa, un passato negato è come uno spettro, che torna costantemente finchè non viene elaborato; e la malattia che si vuole curare è l'oblio testardo, l'amnesia volontaria che avvelena impercettibilmente la nostra vita... (Dalla Postfazione)
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