L'allenatore

L'allenatore

L'ombra autobiografica di salvatore Bruno, questo 'allenatore' che fa il giornalista, che per vivere scrive ma non parla, chiuso in un silenzio nevrotico e tellurico, coincide con lo spirito dei tempi in cui il romanzo fu scritto e uscì per la prima volta nel 1963. L'Italia di allora era quella del boom economico, della bolla euforico-produttiva che mise in circolazione mezzo milione di nuove automobili utilitarie, che produsse nuovi piccoli borghesi in serie e li sprofondò in titaniche nevrosi di massa. Quel boom che spinge il protagonista del romanzo a sedere immobile in un caffè di piazza del Popolo, a Roma, a osservare depresso e muto il seducente effetto del suo stesso silenzio. Perché l'allenatore è un allenatore di donne, un uomo bello e ombroso, amato e mai amante, disilluso e infastidito dallo svolazzare di faute e scontate falene. L'unico suo amore, casto e puro, è la Juventus, il calcio sublimato ed elegante di quella squadra grande e un po' decaduta, l'amore per la bellezza del gesto concluso e fatato dei suoi calciatori, il solo rifugio dall'alienazione di un quotidiano spaventoso e ostile. "L'allenatore" è un monologo raro in cinque capitoli, quattro dei quali straordinari per l'intensità di uno scritto 'parlato', spesi tra viaggi quasi sentimentali e fughe verso le radici, e uno indimenticabile per la sua mistica sportiva e per la rievocazione di un'azione, quella del gol di Praest all'Inter, che resta scolpito nella memoria e nel cuore, lontano dalle aridità del nuovo benessere tanto rifuggito da Bruno. Un romanzo intenso e struggente come il calcio di Sivori, cui è dedicato.
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