La tigre viziosa

La tigre viziosa

In una trascinante favola nera, che Eugenio Montale ebbe a definire, in una recensione, «un tour de force di abilità e di fantasia pura», si snoda il racconto autobiografico di un maschio di tigre caduto nel vizio di mangiare gli esseri umani, generalmente estranei alle consuetudini alimentari delle fiere. All’inizio il sapore dolciastro della carne dell’uomo che «il tigro» ha sbranato quasi per caso, in un momento di foga, gli provoca disgusto. Ma a poco a poco alla ripugnanza si mescola una irresistibile attrazione, una crescente fascinazione che finirà per corrompere la belva, facendole smarrire la primitiva purezza della sua ferocia e insinuando in lei una sensibilità e una fragilità emotiva del tutto estranee alla sua natura, che la isoleranno dai suoi simili («Io non ero più una tigre, ero una bestia a metà d'un misterioso viaggio) e la condurranno, fatalmente, a una tragica fine. Favola allegorica che è insieme conte philosophique e romanzo psicologico, "La tigre viziosa", pubblicata nel 1954 nei «Gettoni» Einaudi, veniva presentato da Elio Vittorini – direttore della collana – come «un libro imprevedibile, sensazionale»; e Italo Calvino, che ne aveva consigliato la pubblicazione, scriveva a Sergio Antonielli: «È una lieta sorpresa. L’ho letto con entusiasmo». Parole che, a distanza di settant’anni, i lettori di oggi non potranno che confermare.
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