Il disastro di Pavia
«Mi sono rimasti solo l'onore e la vita»: così il re di Francia Francesco I, fatto prigioniero dagli avversari, scriveva alla madre commentando la disfatta sul campo di Pavia, il 24 febbraio 1525, a opera delle truppe asburgiche di Carlo V. In quel frangente non si misuravano solo due sovrani, due eserciti e due regni, ma due visioni del mondo. Da un lato il re cristianissimo, gioviale e bon vivant, monarca di un tempo ormai tramontato, dall'altro l'imperatore malinconico, sgraziato, e forse già consapevole dei fermenti di violenza nascosti sotto gli splendori del Rinascimento. La battaglia di Pavia segna la fine di quella mitologica «gran bontà de' cavallieri antiqui» rimpianta da Ludovico Ariosto, e l'inizio di un'inquieta modernità, con le sue masse di lanzichenecchi, i machiavellismi al potere, le guerre di religione, gli Stati assoluti, il dominio del denaro.
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