Il lutto della malinconia

Il lutto della malinconia

Il "racconto intimo" di un ictus e del suo decorso, del lutto per la compagna e per il padre, del corpo che resiste, della vita che ha la meglio: il libro più personale del celebre filosofo francese. «Ho subito un ictus nel gennaio 2018. Nietzsche ha ragione di dire che ogni pensiero è la confessione di un corpo, la sua autobiografia. La scomparsa della mia compagna, cinque anni prima, e questo scavo nel mio cervello, che mi sottrae un quarto del mio campo visivo, trasformano il mio corpo nel luogo di un lutto. "Fare il proprio lutto" - come si dice in francese, "faire son deuil" - è un'espressione stupida, perché è il lutto che letteralmente fa noi. In che modo ci fa? Plasmando un corpo per il quale si tratta di resistere o morire. Questo testo è la descrizione del lutto che mi costituisce. Fallito il colpo, la morte dovrà attendere. Quanto a lungo? Solo Dio - che non esiste - lo sa... Per il momento, la vita vince. Questo libro è un manifesto vitalista. Ogni giorno è un giorno sottratto al nulla». Quando non aveva ancora compiuto trent'anni, Michel Onfray subì un infarto; a cui si aggiunse poco dopo un ictus. Nel gennaio 2018, a 58 anni, un secondo ictus tardivamente diagnosticato gli suggerisce questo «racconto intimo», in cui fornisce un graffiante resoconto delle proprie vicissitudini sanitarie (ci sono pagine di diario d'ospedale buttate giù sul suo iPhone), raccontando i suoi incontri al limite del grottesco con medici incapaci e vanesi; per passare poi, in un secondo momento, a confrontarsi con la perdita del padre e della compagna, con il lutto e con il dolore. E lo fa da par suo, con un libro bruciante, intriso di rabbia e di elegia, in cui si scaglia contro l'ipocrisia dei cosiddetti amici che lo hanno lasciato solo e poi ricorda con tenerezza struggente la compagna, morta dopo una lunga malattia, per giungere infine a scoprire che non è vero, come si pensa abitualmente, che siamo noi a fare il lutto, cioè a elaborarlo e a dirigerlo, ma che è lui a «fare» noi: noi siamo i nostri dolori e le nostre perdite, e l'assenza non è che un altro modo della presenza. In questo libro non pessimista ma classicamente tragico, Michel Onfray ci dice che nonostante tutto, alla fine, tutto è vita e solo la vita conta.
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