Le rose dell'abisso. Dialoghi sui classici italiani

Le rose dell'abisso. Dialoghi sui classici italiani

"Quando ci si pone la questione se Dante conserva o no il suo mondo per noi dobbiamo chiederci l'inverso: in che misura il nostro mondo può essere, per dir così, dantizzato in qualche modo": nel 1991, conversando alla radio con Donatello Santarone su autori canonici della nostra letteratura, Fortini si pronunciava per la loro attualizzazione con un'arditezza che, implicitamente, svelava il conformismo di tante smagate, poetiche della citazione, dell'uso repertoriale di opere del passato, e le apparentava al loro presunto opposto, il culto monumentario e distanziante del Canone e della Tradizione. I classici che qui legge Fortini non giacciono in teche rassicuranti, ma transitano in luoghi spesso insinuati, e talora riappaiono lontani da casa; parlarne, per lui significa esercitare una forma di interculturalismo che coglie in obliquo - oggi si direbbe da un punto di vista decentrato - fratture e linee di fuga, contaminazione e risonanze. Esercizio che vede il Fortini critico arruolare nel discorso, oltre alla musica e alla pittura, soprattutto il Fortini poeta, quello 'petroso' al modo dantesco, quello 'idillico' non ignaro di Leopardi, o quello 'pentecostale' sulla scorta manzoniana. Si è chiamati così a partecipare di un'abbagliante intelligenza dei testi, anche meno consacrati, come le 'sepolcrali' leopardiane, o delle stesure cancellate dai pentimenti d'autore: è il caso per Manzoni, delle prime versioni - troppo politiche ed esposte - dell'"Adelchi" o della "Storia della Colonna infame".
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