Fame di guerra. La cucina del poco e del senza

Fame di guerra. La cucina del poco e del senza

Gli italiani nel Novecento hanno dovuto fare i conti con termini quali il razionamento, l'annona, i surrogati, l'autarchia, la fame da trincea, la gavetta e la marmitta. Tutte parole che mascheravano la fame di guerra e, come accadde dopo le sanzioni imposte dalla Società delle Nazioni nel 1935, la restrizione. Il fascismo coniò slogan come "Chi mangia troppo deruba la Patria" e inaugurò gli orti di guerra sostituendo il té con il carcadè, il Caffè con il Caffesol, una sorta di miscela marroncina che nulla manteneva dell'aroma proprio del caffè, e la pasta, dopo una forte propaganda, con il riso, prodotto dalle risaie italiane. Fin dal 1914 furono le massaie chiamate in prima fila a evitare sprechi e inventare la cucina del riuso e del riciclo. Nulla si doveva buttare. Tutto era buono per altri manicaretti. Si moltiplicarono così fino al boom economico degli anni '50 libri di ricette, suggerimenti e ordini per sfamare un popolo chiamato a combattere, oltre che il nemico, la fame continua. Sarà l'industrializzazione e il consumismo a riempire la pancia degli italiani che una volta sfamati dimenticheranno l'utile e, tutto sommato, "piacevole" cucina del poco e del senza.
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